Gelmini e il falò delle amenità

Serena Orizi

Sono davvero orgoglioso di pubblicare il guest post firmato Serena Orizi che replica alla sfortunata affermazione della Gelmini a Ballarò, con la quale il Ministro definisce “amenità” corsi di laurea come Scienze della comunicazione. Con Serena ho condiviso cinque anni di studi universitari “ameni” e molto proficui; oggi è una Press Office Manager che lavora nel campo ICT e PMI  e che è ben felice della sua “amena” professionalità.

“[…]perché riteniamo che piuttosto di tanti Corsi di Laurea inutili in Scienza delle Comunicazioni o altre amenità servano profili tecnici competenti che incontrino l’interesse del mercato del lavoro…beh insomma diciamo che non aiuta a trovare lavoro, questi sono i dati…basta vedere…le dico che purtroppo sono più richieste lauree di tipo scientifico, lauree che in qualche modo servono all’impresa”.

Maria Stella Gelmini, Ministro dell’Istruzione



Le parole sono importanti. E aveva ragione a dirlo Nanni Moretti in Palombella Rossa. Evidentemente il nostro Ministro non ha mai visto il film o non comprende fino in fondo l’importanza dell’espressione verbale. Altrimenti non parlerebbe di ScienzA dellE ComunicazionI così come farebbe una qualunque sciura al mercato a conversazione con la comare – tra la pesata di un cavolfiore e una palpatina al peperone – che non ricorda il percorso di studi della nipote “diplomata a pieni voti, sa?”.

Perché, sa, noi della classe 1997 a Siena siamo entrati tramite test. Venivamo da tutta Italia per aggiudicarci uno dei 140 posti a disposizione per un percorso di 5 anni. Una guerra tra sessantini, perché l’ammissione avveniva in parte grazie al voto di diploma. Chi per merito pregresso, chi per merito ottenuto alla prova, siamo entrati: eravamo i migliori. E tra di noi c’era chi era ancora più bravo. Oggi può vedere i loro volti in tv, può leggere i loro articoli sui giornali, può incontrarli nei cda aziendali, può stringere loro la mano durante una consulenza. Non mi pare siano tutti a spasso, perlomeno non in misura maggiore rispetto ai colleghi delle altre Facoltà, nonostante la sua magnifica pensata sulla riforma ci avesse davvero fatto perdere ogni speranza. Certo, in alcuni casi ci siamo dovuti inventare una professione ma in tanti altri abbiamo solo migliorato la qualità di quelle esistenti.

Perché, sa, fa un certo effetto entrare nella redazione di un giornale e saper correggere la punteggiatura a un caporedattore; lavorare in un ente pubblico e veder spendere centinaia di migliaia di euro in campagne promozionali inutili, se non controproducenti; affrontare un colloquio di lavoro con il responsabile HR e intuire già dove vuole andare a parare con una certa domanda.

Signora mia, le parole sono importanti. Noi che abbiamo studiato Scienze della Comunicazione – perché così si chiama il nostro corso – lo sappiamo bene.  È vero, può darsi che ci abbiano fatto due palle così per 5 lunghi anni tra triangoli di significanti e significati, segni e referenti. Però io ricordo quegli anni di studio tra i più interessanti mai trascorsi. Sa, contrariamente a quanto lei sostiene, avevamo continuamente punti di contatto con la realtà. Ci hanno aperto gli occhi sulla vita di ogni giorno, da un acquisto compulsivo al mercato al titolo di una notizia data – o, ancor meglio, omessa – al tg. Io ora ne capisco il motivo e mi stupisco quando agli altri tutto questo non appare lampante. Il nostro sapere è frutto di un insieme di conoscenze che vanno dalla psicologia al marketing, dall’economia alla storia, dall’informatica al giornalismo. Sa, quegli argomenti che ogni tanto è utile conoscere quando si lavora per un’impresa di questi tempi.

Per questo ci hanno insegnato a capire il linguaggio, in qualunque forma o espressione si riveli.

Noi oggi siamo in grado di capire quando un’argomentazione è uno slogan e quando è invece frutto di riflessione e logica. Non ci facciamo abbindolare come facili prede nelle trappole mediatiche perché ne conosciamo gestazione e applicazioni. Contrariamente a questo lei sostiene, sembra davvero che la nostra professione sia molto utile alle imprese.

Anzi, sa, potremmo abbindolare anche lei, se solo volessimo. Fortunatamente alcuni di noi possiedono un cuore e proverebbero solo commiserazione per le “amenità” – ahimè, queste sì – esposte nelle sue tesi.

Altri dispongono persino di un cervello e – sa, signora mia – non è in vendita.
Serena Orizi, laurea quinquennale in SdC, febbraio 2003, Siena
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Jacopo Pasquini

Consulente e docente di marketing e comunicazione digitale, specializzato in Web Marketing e UX Design. Ho iniziato a navigare su Internet nel 1997 con un modem 56k, oggi lavoro come freelance per aziende, agenzie, università.

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4 Comments
  • Roberta Battisti

    9 febbraio 2011 at 12:45 Rispondi

    Non se ne può davvero più…..

  • DigitalMary

    9 febbraio 2011 at 16:27 Rispondi

    Una delle risposte che mi è piaciuta di più.

  • GTasco

    10 febbraio 2011 at 12:32 Rispondi

    Questa me l’ero persa acc! Se solo dessero a questo Paese la libertà di esprimersi allora si che avremmo un mercato del lavoro. seguendo la Gelmini dovremmo tutti laurearci in ingegneria, poi magari direbbe che il problema è che ci sono troppo ingegneri e che non bisogna laurearsi affatto, il solito problema del guardare il dito e non la luna, il problema secondo la Gelmini è il tipo di laurea quindi, non il fatto che in Italia non si sia in grado di creare i presupposti per creare posti di lavoro, ci stiamo impoverendo e non solo economicamente, e più impoverimento culturale avanza e meno posti di lavoro ci saranno

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